Introduzione (Italian)
Questa mia traduzione del Grande Inquisitore è la traduzione di una traduzione dell'opera originale di Fiodor Dostoevsky. La traduzione inglese di cui ho fatto uso è quella di Helena Blavatsky. La traduzione della Blavatsky segue, in questo opuscolo, la mia traduzione in lingua friulana. Helena Blavatsky, contemporanea del grande scrittore russo, ha lasciato il suo segno nella storia principalmente per aver dato inizio a quella sintesi di filosofia e teologia che porta il nome di teosofia. Riteneva la Blavatsky che Dostoevsky era egli stesso teosofo, almeno in spirito, e forse senza nessuna consapevolezza di esserlo. Sembra che un indizio ci venga offerto dal Internet (Theosophy online), dove è facile riscontrare che secondo i teosofi esiste una realtà spirituale, e che è possibile penetrare in questa realtà usando l'intuizione o la meditazione, o qualche altro metodo di cognizione che per la generalità della gente rimane nascosta o occulta. Secondo la stessa Blavatsky i segreti di questa realtà rimangono occulti per la gente di massa—che brama soddisfare solo interessi personali—perché se essi venissero divulgati verrebbero inevitabilmente desacrati. Ed è proprio quì, forse, che vediamo il legame fra il pensiero teosofico e la insistenza del Grande Inquisitore di tenere nascosto dalla gente comune il grande mistero, o segreto.
Nel romanzo di Wolfgang Koeppel, Der Tod in Rom (Morte a Roma) la cui trama si svolge a Roma ai tempi dei processi di Norimberga nei primi anni del dopoguerra, l'autore esprime i sentimenti che seguono su uno dei principali protagonisti che durante il conflitto era stato ufficiale della Wehrmacht:
“Judejahn bangte nicht, gehängt zuwerden. Er furchte sich, zu leben. Er fürchtete die Befehlslosigkeit, in der erleben sollte; er hatte viel verantwortet, je höher er stieg, um so mehr hatte er verantwortet, und die Verantwortung hatte ihn nicht gedrückt, doch seine Rede “auf meine Verantwortung” oder “das verantworte ich” war Phrase gewesen, eine Phrase, an der er sicht berauschte, denn in Wahrheit hatte er immer nur gehorcht. Judejahn war mächtig gewesen. Er hatte die Macht ausgekostet, aber um der macht froh zuwerden, brauchte er eine Einschränkung seine Allmacht, brauchte er den Führer als Verkörperung und weithin sichtbaren Gott der Macht, den Befehsgeber, auf den er sich berufen konnte for dem Schöpfer, den Menschen und dem Teufel: ich habe immer nur gehorcht, ich habe stets nur Befehle ausgeführt...”
“Judejahn non temeva di venire impiccato. Aveva paura di vivere. Temeva la mancanza di ordini in cui avrebbe dovuto vivere; aveva avuto molte responsabilità, e più in alto era salito, e più responsabilità aveva avuto, e le responsabilità non lo avevano depresso, sebbene che le sue parole "sotto la mia responsabilità" o "Sono responsabile per questo" erano solo parole, parole a cui ci teneva, anche se in realtà aveva solo obbedito. Judejahn era stato potente. Aveva assaporato il potere, ma per essere felice era necessario che il suo potere venisse limitato, aveva bisogno del Führer come incarnazione di un dio del potere ampiamente visibile, una autorità da invocare come creatore dell'uomo e del diavolo: ho sempre obbedito, ho sempre e solo eseguito ordini ... "
Sto ora, per pura coincidenza, leggendo il romanzo di Koeppel mentre sto terminando la mia traduzione del Grande Inquisitore, questo straordinario “poema” che tratta proprio del concetto della responsabilità personale, della serenità che una persona può derivare dalla abdicazione della propria libertà di coscienza e azione. È chiaro che una persona come Judejahn obbedirebbe ogni raccomandazione dell'Inquisitore, e che senza gli interventi dell'Inquisitore se sentirebbe perso, come una pecora lontana dal suo pastore. Ma il vangelo di questo personaggio del Dostoevsky non vale solo per Judejahn; vale, se non per tutti, almeno per la maggioranza della gente, che secondo l'Inquisitore è incapace di sopportare la libertà e tutte le responsabilità che la accompagnano, preferendo invece che, come nel caso di Judejahn, altri gli mostrino la strada da percorrere.
Nel suo Timore e Tremore, Kierkegaard ci dimostra come il essere consapevoli degli effetti del peccato e allo stesso tempo essere consapevoli delle possibilità dell'essere liberi, crea in noi un tormento spirituale, un Angst insopportabile. Ed è per ciò che Judejahn sente la necessità di in Führer che lo assolva da ogni sua responsibilità. E quando leggiamo brani come quello che segue, sappiamo che l'Inquisitore si rende ben conto del peso che la libertà di scegliere ha sulla gente, che, liberata da ogni responsabilità,—
“... si raduneranno intorno a noi come pulcini attorno alla loro gallina. Si stupiranno e proveranno un'ammirazione superstiziosa per noi e si sentiranno orgogliosi di essere guidati da uomini così potenti e saggi che una manciata di loro può sottoporre un gregge di mille milioni di persone. A poco a poco gli uomini inizieranno a temerci. Temeranno nervosamente la nostra minima stizza, i loro intelletti si indeboliranno, i loro occhi diventeranno facilmente accessibili alle lacrime come quelli di bambini e donne; ma insegneremo loro una facile transizione dal dolore e dalle lacrime alle risate, alla gioia infantile e al canto gioioso. Sì; li faremo lavorare come schiavi, ma durante le ore di ricreazione avranno una vita innocente da bambini, piena di gioco e risate allegre. Permetteremo loro anche di peccare, perché, deboli e indifesi, sentiranno più amore per noi per aver permesso loro di indulgere nel peccato. Diremo loro che ogni peccato sarà loro rimesso, purché sia fatto con il nostro permesso; assumeremo tutti questi peccati noi stessi, perché li amiamo così tanto che siamo persino disposti a sacrificare le nostre anime per la loro soddisfazione ... "
È un paradosso il dire che liberata dalla libertà la gente si sentirà più libera. Ma il paradosso svanisce non appena pensiamo che è del tutto impossibile essere liberi senza essere allo stesso tempo pieni di responsabilità; e l'avere delle resonsabilità significa vivere con un peso addosso che ci toglie la spensieratezza. Su questo punto il Signore e l'Inquisitore non sono minimamente d'accordo, sebbene che il bacio che il Signore da all'Inquisitore alla fine del “poema” ci lascia col pensiero che forse, forse, questi due avversari hanno, dopotutto, almeno qualcosa in comune.